Location: Pieve di San Siro
Incontro con l’autore: Giovedì 19 | ore 20,30
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Prigionieri del silenzio. Viaggio nei manicomi calabresi
Un reportage degli anni ’80 all’interno degli istituti di igiene mentale calabresi. Negli istituti italiani venivano rinchiuse persone con problemi mentali ma anche anziani senza famiglie, donne sole, bambini non voluti o con handicap, persone indigenti. Poca è la documentazione fotografica su questi centri nel sud. Il reportage di Cassala ha quindi una grande valenza storica ma ha altresì il merito di non essere mai aggressivo, di non offendere mai la dignità delle persone riprese e di voler affrontare un problema, quello dei centri di igiene mentale, i manicomi, con grande lucidità. In attesa che arrivasse e venisse applicata la Legge Basaglia. «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.» (Franco Basaglia)“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere” (Franco Basaglia, 1924 –1980). Con la legge Basaglia (n. 180, 13 maggio 1978) che dispose la chiusura dei cosiddetti “manicomi”, assistiamo ad un grande cambiamento nel modo di intendere il paziente psichiatrico, restituendo rispetto e dignità alla persona e allontanandosi da etichette rigide di persona “malata”, “pazza”, “disabile”. Dal 1927 il numero dei ricoverati nei manicomi italici crebbe costantemente ogni anno, con percentuali notevolmente superiori alle medie precedenti. Dai 62.127 (1926) si passò a 94.946 internati (1941) e il manicomio rappresentava sempre più un valido strumento di silenziosa repressione politica e sociale. Con la legge Basaglia gli ospedali psichiatrici furono definitivamente chiusi lasciando, però, solitudini e complessità difficilmente risolvibili ancora oggi e mai del tutto risolte. Le fotografie di Rosario Cassala ci permettono di comprendere l’intensità di quel momento, ci permettono di entrare visivamente ed emotivamente all’interno dell’ospedale psichiatrico agli albori della riforma non ancora applicata di Franco Basaglia, come spazio in cui il malato psichico era “internato” e obbligato a stare perché successivo al carcere o come alternativa all’ospedalizzazione stessa. E ancor prima come luogo di “depersonalizzazione”, struttura che “contiene” l’essenza e l’esistenza della personaal di là del fine riabilitativo che si perde e si confonde nei pregiudizi sociali e culturali di malattia mentale. La fotografia ci permette quindi di “restar dentro pur rimanendo fuori” e di condividerne vissuti pur mantenendo l’integrità della nostra esistenza; di partecipare emotivamente al momento storico rappresentato dagli ultimi momenti antecedenti il grande cambiamento basagliano, di essere insieme ai pazienti “prigionieri del silenzio”. L’utilizzo prevalente del bianco e nero delle fotografie presentate in “Prigionieri del silenzio – Viaggio nei manicomi calabresi”, così definitivo e strutturato è evocativo del contrasto indissolubile tra l’accettabile e il riprovevole, tra la luce e l’ombra di una condizione, quella del malato psichiatrico internato, incomprensibile e incompresa, di conseguenza inaccettabile e inammissibile nell’idea di integrazione sociale. Lo stato di abbandono e incuria presente chiaramente nelle strutture fotografate anticipano la notizia di abbandono dei pazienti presenti, così come le grate alle finestre ingabbiano ma al tempo stesso tengono a giusta distanza l’esterno, il mondo della “normalità” e della sanità mentale. Nelle foto quello che è evidente è la persona nella sua corporeità. Dove il corpo è essenza ed esistenza; dove il corpo comunica lo stato di sofferenza individuale, collettivo, sociale del malato e lo spettatore, grazie ad un sapiente uso della fotografia, riesce a comprendere emotivamente tutto questo, riesce a entrare nel suo mondo e a empatizzare e a compartecipare, riconoscendo il proprio dolore nel dolore dell’internato. Queste fotografie danno ad esempio uno sguardo d’insieme al sociale e al collettivo della situazione manicomiale, dove il malato psichiatrico è innanzitutto persona alienata. Alienata da se stessa, dagli altri, dalla società in cui non ci si riconosce e nella quale ci si adatta a fatica. Il vivere ai margini della società ed inevitabilmente “rinchiusi” in essi porta l’inevitabile conseguenza di una società che non si accorge più della problematicità vissuta, nella difficoltà di identificare la persona e la sua esistenza distinguendola dal contesto in cui è inserita. In altri casi rappresentano simbolicamente l’impossibilità del paziente e della società del tempo (e forse ancora oggi) di slegare la persona dalle proprie categorizzazioni e dalle proprie etichette, dalla propria psicopatologia. E così, il lenzuolo-legame con il palo-riferimento rigido da cui non ci si può separare, la chiusura su se stessi nella distanza dallo sguardo con l’altro, l’impossibilità e l’arresa. In altri casi infine abbiamo la possibilità di conoscere e comprendere le caratterizzazioni tipiche della personalità del paziente psichiatrico: l’abulia e l’inattivismo, l’arresa e l’oggettivizzazione della persona che diventa non solo altro da sé, ma anche oggetto da cui distanziarsi. L’assenza o l’eccesso di espressioni facciali presenti nelle fotografie raccolte, mascherano l’autenticità e la sofferenza individuale, divenendone chiara conseguenza. Infine le fotografie mostrano un’ulteriore dimensione, quella relazionale. La fisica chiusura all’esterno e il ritiro in se stesso (quasi un accartocciamento in alcune fotografie) rivelano un vissuto di diversità (dalla media normalità) e di distanza (da questa media ovvero dagli altri). Emergequindi gradualmente una chiara difficoltà relazionale da cui ci si protegge chiudendosi, elemento questo, comune a diverse psicopatologie psichiatriche presenti nella realtà manicomiale, riflettendosi poi nella difficoltà –non solo individuale, ma anche da parte della stessa società –di un possibile e costruttivo reinserimento degli stessi dopo la loro “ospedalizzazione”. Le fotografie sono canali diretti, immediati e senza filtri che “impattano” sulla persona al di là del linguaggio verbale e della sua comunicabilità, divenendo testimonianza, denuncia e urgenza di cui parlare ancora oggi. Guardare queste fotografie ci trasforma quindi inevitabilmente in testimoni indiretti dell’evento storico e della necessità di dare alla problematicità psichica e psichiatrica una diversa connotazione rispetto al passato, lontano da pregiudizi e etichettamenti.
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ROSARIO CASSALA. Nato a Catanzaro in Calabria nel 1953. All’età di 20 anni inizio a fotografare documentando le feste religiose, le fiere, la festa dei nomadi che ogni anno si svolge a Riace. Insieme ad altri due fotografi calabresi Aldo Bressi e Antonio Vero realizziamo negli anni ’80 due mostre fotografiche “IL MURO” e ” VOLTO ESPRESSIONE GESTO” presso la sala espositiva della Prov. di Catanzaro. Sempre negli anni ’80 realizzo un reportage all’interno degli ex manicomi di Girifalco (Cz) e Reggio Calabria. Il reportage è stato inserito in occasione del “MESE FOTOGRAFIA ROMA” mese marzo 2019. Da circa 20 anni vivo a Brescia. Milano e Verona con il loro fascino e la loro complessità rappresentano i luoghi ideali per continuare la mia ricerca fotografica rivolta sempre alle persone e alle loro situazioni di vita.